I crateri ribollenti, l’aria che sa di zolfo, le attese e i ricordi nella danza dei giorni accanto al vecchio mulino ad acqua in Contrada Isca, nella Villamaina che è Irpinia d’Oriente. E poi il verde immenso che invade lo sguardo, squarcia nostalgia e segna a sangue nostalgie di terre fatte apposta per lottare e raccontare umanità.
La ricerca di un’arte che è davvero pensiero e vita, innestando tradizione e futuro, porta Gennaro Vallifuoco nella Valle d’Ansanto che smarca con la sua bellezza e cattura il viandante. L’artista irpino – giunto a una maturità che invita a seguire il tratto dei suoi inqueti pennelli – apre le vene alla magia e in una febbre di verità propria del suo spirito chiede a sé stesso confronto con giganti di pensiero mentre si lascia abitare dal vento che porta le voci.
Sta lì Vallifuoco, dopo le sue mille opere piene di colore e di sogni, dopo il sodalizio artistico-letterario con il Maestro Roberto De Simone, dopo aver guardato negli occhi Mario Schifano ed essersi misurato con l’enigma senza fine delle Mater Matute.
Sta in quella valle cantata da Virgilio nel libro VII dell’Eneide. Sulla sua tela, spatolata di mille attese, rincorre la Furia Aletto, spaventosa Erinni, che torna agli inferi cercando l’antro sulfureo. Già Cicerone aveva citato la Valle d’Ansanto nel trattato De Divinatione, mettendone in chiaro le insidie e il fascino, mentre Plinio attesta la presenza di un edificio sacro dedicato a Mefite.
Di quello spicchio d’Irpinia che rimane nell’anima ha scritto con competenza Tiziana Lepore in La Valle d’Ansanto, una terra di Mezzo (Elio Sellino editore, Avellino 2006, un omaggio all’artista Giovanni Spiniello, con pagine che ospitavano anche poesie e riflessioni di Gerardo Picardo), mentre sono un fuoco di brace che invita a riflessioni profonde e le ricerche storiche e archeologiche di Mons. Nicola Gambino. Per quella valle dove ribolle il sogno della dea di ogni confine, valgono le parole che Giordano Bruno riserva alla verità, quando scrive che “il tempo non l’arruga e la notte non l’interrompe”.
La Ruota del Tempo gira ora con un’altra voce che fa strada ad altri incontri e dialoghi senza tempo, in quella topologia della realtà di vita che unisce maestri e contadini, santi e puttane. Mephitis dea odoris gravissimi, canta Vallifuoco.
E’ lui lo sciamano dei nuovi riti alla dea d’Irpinia, forte e terribile come quella terra. E così l’arte racconta Mefite, che è tempo e morte ma anche porta sui mondi, ligamen e vincolo. La dea è soprattutto “colei che sta in mezzo”, perché congiunge diversi eterni e custodisce il segreto di schiene curve, di fuochi e pietre alzate a secco, segni profondi di vigne e janare.
Mefitis è la porta dell’oltre perché invita a ‘trans-gredire’ ad andare oltre. Del resto gli Xoana custoditi nel Museo Archeologico di Avellino richiamano nella forma la dea Mefite, una figura scura, come la Madonna nera, come la Grande Madre Terra.
Contaminazione di Bellezza e segreto di arte e letteratura: tutto questo è “MEFITIS” di Gennaro Vallifuoco, l’esposizione ospitata dal Complesso Monumentale Ex Carcere Borbonico di Avellino dal 5 al 29 marzo 2022, a cura di Generoso Bruno ed Augusto Ozzella
L’artista accosta il fango e l’argilla, ricavati proprio dalla Valle di Ansanto, al filo bianco del ricamo delle Pizzillare della Scuola di Tombolo di Santa Paolina.
Vallifuoco sperimenta così nuovi percorsi artistici, usando legni, tela di juta e di lino, asfalto e guaina liquidi, smalti, terracotta maiolicata e foglia d’oro.
“Non è il contatto con la MIA terra – dice Vallifuoco, docente di Scenografia all’Accademia di Belle Arti – ma è l’aderenza all’identità dell’area mediterranea. Virgilio nella Eneide riduce la Mefite a porta dell’Inferno, ma non è soltanto questo. È la porta di un mondo che prelude alla vita ed alla forza, un riflesso di ciò che vediamo sulla terra.
Sono abituato alla ricerca dei simboli, dei segni di tipo antropologico, per mia indole, probabilmente anche per le esperienze fatte con Roberto De Simone. Nel caso di questa mostra ad esempio come è accaduto per il tombolo, ho raccolto l’aspetto della dimensione popolare, che ho tradotto in segni, passando attraverso una lettura moderna.
L’obiettivo – racconta l’artista irpino – è il rinnovamento linguistico del punto di partenza, il ricapitalizzare l’apparato linguistico dell’idea del tombolo, che è il filo del Tempo, della Memoria, della Storia, ma è anche il filo bianco che sopraintende alla tessitura di questo prezioso manufatto, legato ai cicli morte-vita. Traggo ispirazione da questo e cerco di rinnovarlo con un linguaggio più contemporaneo, che comprende l’uso di materiali poveri. In questa ottica ho usato l’argilla ed il fango mefitico, che concettualmente rappresentano la materia primordiale da plasmare”.
Per l’artista è la stessa interazione umana a divenire materia dell’opera; su questa premessa mette in forma la relazione con le Maestre e le allieve della Scuola del Tombolo di Santa Paolina. Ognuna delle Pizzillare ha donato all’opera almeno settanta ore di lavoro. In un procedimento compositivo di oltre quattrocento ore, l’intesa sulle scelte di produzione e il grado di autonomia del contributo creativo sorreggono la relazione tra l’artista e la comunità delle ricamatrici. Il rumore dei fuselli – gli utensili lignei necessari all’intreccio dei fili – assieme alle audioregistrazioni effettuate presso la sorgente mefitica, trasmutati in componimento sonoro da Marco Messina e Sacha Vinci, oltre ad incardinarsi nella ripetizione dei frame video installati, costituisce la traccia sonora dell’intero percorso espositivo.
Un appuntamento con la Bellezza e il bacio senza tempo di una dea che ha ancora tanto da dire alle nostre storie di cercatori di senso.
“MEFITIS” ad ingresso gratuito, martedì – sabato: 9.00 – 13.00 / 16:00 – 19:00
Fonte:C.S.